Tesi Dottorato di Ricerca in Fisiologia Applicata e Fisiopatologia - XVII° Ciclo ; Anno 2003-2004
1. Introduzione
Durante il corso della vita, il nostro organismo è soggetto a numerosi e ripetuti insulti (le ferite, i traumi, le malattie) i quali tuttavia, benché possano essere dolorosi o debilitanti, solo raramente finiscono per creare danni irreversibili a carico degli organi e dei tessuti.
Nel mito di Prometeo viene descritta per la prima volta quella che è la strabiliante abilità del nostro fegato di "riparare se stesso". La leggenda narra che quando Prometeo trasgredisce le leggi degli antichi Dei e ruba il fuoco per donarlo agli esseri umani ed insegnare loro la civiltà e le arti, l'ira degli Dei lo colpisce con una terribile punizione: Giove incatena il grande Titano ad un fianco del Monte Caucaso affinché un'aquila faccia preda ogni giorno del suo fegato, il quale continuerà a rigenerarsi tanto rapidamente quanto più voracemente verrà divorato.
Ci sono voluti diversi millenni, prima che la scienza, ed in particolare, la biologia cellulare riuscisse a svelare il "mistero" che stava alla base della capacità rigenerativa dei tessuti umani. In effetti sappiamo ormai per certo che i tessuti del nostro organismo hanno una capacità rigenerativa tanto maggiore quanto più ampia è la popolazione di cellule staminali che conservano durante la vita adulta.
Le cellule staminali si caratterizzano per essere cellule ancora non differenziate, che presentano una elevata capacità proliferativa e allo stesso tempo sono in grado di trasformarsi, ovvero di differenziarsi negli elementi cellulari più maturi dotati di funzioni specifiche. In base alla capacità proliferativa o "staminale" residua, la biologia cellulare suddivide storicamente i tessuti adulti in "labili", "stabili" e "perenni". I tessuti labili, come gli epiteli di rivestimento e le mucose, sono tessuti dotati di un ampio compartimento staminale e si caratterizzano per una notevole attività proliferativa di base. I tessuti perenni, invece, come il miocardio o il tessuto cerebrale, perderebbero durante i processi di sviluppo e maturazione la maggior parte degli elementi staminali e non sarebbero quindi in grado di ripararsi in seguito ad un danno (ad esempio: infarto del miocardio o ictus cerebri). I tessuti stabili, come il fegato appunto, sarebbero invece formati da cellule normalmente non in grado di rigenerare ma che riacquistano la capacità di proliferare al verificarsi di una danno.
Indipendentemente dalle capacità rigenerative intrinseche di ogni tessuto, uno dei dogma, sino a pochi anni fa mai infranto, della biologia cellulare era quello che voleva che le cellule staminali di un tessuto avessero sì capacità proliferative e differenziative enormi, ma che la differenziazione potesse verificarsi esclusivamente nell'ambito dello stesso istotipo o foglietto embrionale di origine; ovvero, cellule staminali di derivazione epiteliale potevano dare origine esclusivamente a cellule di origine ectodermica, così come da cellule staminali di origine connettivale potevano derivare esclusivamente cellule di origine mesodermica, e così via...
In realtà, sono numerosissimi i lavoro scientifici pubblicati negli ultimi 5 anni che dimostrano, alcuni con più rigore scientifico di altri, che le cellule staminali del soggetto adulto in realtà non solo sono in grado di "differenziare" ma anche di "transdifferenziare", ovvero sarebbero capaci, in presenza di opportuni stimoli, di dare origine ad elementi cellulari maturi diversi da quelli tipici del proprio tessuto di appartenenza.
In particolare, la maggior parte degli studi sino ad ora realizzati hanno investigato la capacità transdifferenziativa delle cellule staminali emopoietiche di derivazione dal midollo osseo. Queste cellule, situate nelle lacune del midollo emopoietico e in piccola quantità presenti nel sangue periferico (0.5% delle cellule mononucleate presenti in circolo), sono comunemente identificate per la positività dell'antigene di membrana CD34 e rappresentano il compartimento cellulare ad elevata capacità proliferativa e differenziativa che nel soggetto adulto determina il continuo ricambio degli elementi figurati del sangue.
L'idea che possano essere queste le cellule implicate nei processi di rigenerazione dei tessuti, viene soprattutto dall'esperienza nell'ambito dei trapianti di midollo osseo. Molti studi hanno infatti dimostrato che cellule di origine del donatore possono essere ritrovate in organi extra-ematologici di riceventi di trapianto di midollo o di cellule staminale emopoietiche eterologhe. Inoltre, sembra che il richiamo di queste cellule di derivazione midollare e la differenziazione in loco in elementi cellulari maturi sia tanto maggiore quanto maggiore è il danno o l'infiammazione presente nel tessuto extra-midollare. L'ipotesi che ne consegue, quindi, è che nei processi di riparazione del danno tissutale nel soggetto adulto possano intervenire non soltanto le cellule staminali residenti nel tessuto stesso, ove presenti, ma anche cellule staminali di origine da altri tessuti che potrebbero essere "richiamate in loco" (concetto di homing) al verificarsi di un danno locale. E' questa una teoria molto allettante per la Medicina moderna che si trova sempre di più a dover far fronte a pazienti con danno irreversibile-/insufficienza d'organo e per i quali l'opzione trapiantologica è spesso non percorribile in considerazione della scarsità degli organi trapiantabili.
2. Rigenerazione epatica: dal mito ai meccanismi biologici
Il fegato ha un ruolo centrale nell’omeostasi metabolica essendo responsabile del metabolismo, della sintesi, dello storaggio e della distribuzione dei nutrienti; inoltre, produce una considerevole quantità di proteine sieriche come l’albumina, le proteine di fase acuta, i fattori della coagulazione, enzimi e cofattori. Da non dimenticare infine, che il fegato è a tutti gli effetti il principale organo ad azione detossificante, in grado di rimuovere le scorie e gli xenobiotici attraverso processi metabolici e di coniugazione biliare.
L’elemento cellulare protagonista della maggior parte delle funzioni svolte dal fegato è in realtà la cellula parenchimale, o epatocita, che rappresenta oltre l’80% della popolazione cellulare presente nel tessuto. L’altro 20% di elementi cellulari è rappresentato da cellule non parenchimali, quali le cellule endoteliali, le cellule di Kupffer, i linfociti e le cellule stellate (1).
Effettivamente, benché gli epatociti del fegato adulto vivano a lungo e non mostrino in condizioni fisiologiche attività proliferativa, mantengono in realtà la capacità di proliferare al verificarsi di un danno locale. La strabiliante capacità rigenerativa del fegato è stata per la prima volta dimostrata da Higgins e Anderson nel 1931 in un modello sperimentale di epatectomia subtotale (2). E’ questo un modello murino in cui, alla rimozione chirurgica di 2/3 della massa epatica conseguiva una rapida crescita del fegato residuo con rigenerazione completa dell’organo entro una settimana dall’intervento. Il termine “rigenerazione” non è in realtà appropriato, visto che la suddivisione in lobi dell’organo resecato non viene ripristinata come invece è noto avvenire, ad esempio, negli anfibi in seguito all’escissione della coda. Quello che si osserva, in realtà, è una risposta iperplastica che coinvolge virtualmente ogni epatocita funzionante del fegato rimanente. Il processo di rigenerazione appare come un fenomeno di tipo “compensatorio” visto che la massa finale del fegato che ha rigenerato è in funzione delle necessità dell’organismo ed una volta che la massa originaria è stata ripristinata, la proliferazione degli epatociti cessa.
Divisioni cellulari si osservano raramente nel fegato adulto sano, visto che gli epatociti sono in genere “quiescenti” nella fase G0 del ciclo cellulare (3). Tuttavia, in seguito a resezione epatica, approssimativamente il 95% delle cellule epatiche residue rientrano rapidamente in ciclo cellulare; in particolare, in base a quanto osservato nel fegato di ratto, il tasso di sintesi di DNA comincia ad aumentare all’interno degli epatociti entro 12 ore dall’intervento e raggiunge un picco massimo entro 24 ore, mentre l’induzione della sintesi del DNA si verifica più tardivamente nelle cellule non parenchimali (a 48 ore circa per le cellule di Kupffer ed a 96 ore per le cellule endoteliali). E’ evidente che progressivamente, la velocità di sintesi del DNA negli epatociti si riduce, in considerazione del fatto che il completo recupero della massa epatocitaria richiede 1.6 divisioni cellulari per cellula. La rigenerazione del tessuto epatico, appare in effetti come un evento estremamente ben orchestrato, l’aumento della sintesi del DNA si registra inizialmente negli epatociti che circondano i rami della vena porta nello spazio portale e sembra procedere successivamente in direzione della vena centro-lobulare (4). Il maggiore incremento della massa epatocitaria si verifica entro il 3° giorno dall’epatectomia e il completo recupero si ha entro il 5°-7° giorno (5).
La proliferazione degli epatociti è altresì coinvolta nella rigenerazione epatica che si verifica in seguito a necrosi epatocitaria massiva, o apoptosi indotta da ischemia, infezioni virali o epato-tossine. Inspiegabilmente, però, la rigenerazione in queste circostanze non sembra essere così sincronizzata come si verifica in seguito ad epatoresezione (6). Notevoli cambiamenti dell’architettura epatica si osservano comunemente sia dopo epatectomia che in seguito a necrosi ed apoptosi legate a noxae patogene di varia origine, in particolare si osserva l’induzione della sintesi locale di nuove forme di fibronectina, molecole di adesione cellulare e della membrana basale. Cambiamenti nelle giunzioni intra- ed inter-cellulari si verificano transitoriamente durante la rigenerazione ed il ripristino della normale architettura si verifica solo dopo che la massa epatica originaria è stata ripristinata (1). Ciò nonostante, molto poco si sa dei complessi meccanismi che regolano la riorganizzazione dell’architettura tridimensionale del fegato dopo il danno.
Il singolo epatocita presenta quindi una impressionante potenzialità replicativa visto che sono sufficienti pochissime cellule per ripristinare l’intera massa epatica dopo un danno esteso. La lunghezza dei telomeri è fondamentale per il mantenimento del potenziale replicativo e per una efficiente sintesi del DNA, questo è dimostrato dal fatto che in modelli murini knock-out per il gene della telomerasi, la sintesi del DNA è notevolmente ridotta ed è ridotta in generale la vita media degli epatociti. Uno dei meccanismi per i quali nel danno cronico (epatiti virali, ad esempio) gli epatociti perderebbero progressivamente la propria capacità proliferativa potrebbe quindi essere rappresentato dalla progressiva perdita di materiale genetico telomerico legata all’eccessivo protrarsi nel tempo dell’evento lesivo (7,8).
Gli epatociti non sono invece in grado di proliferare in risposta a determinati tipi di danno. Alcuni agenti come la retrorsina, la dipina e la galattosammina determinano necrosi epatocitaria negli animali da esperimento, ma ciò nonostante la capacità replicativa della maggior parte degli epatociti appare inibita mentre un’altra popolazione di cellule, note come cellule ovali (“oval cells”), prolifera per rimpiazzare il parenchima epatico danneggiato (9). Queste cellule, la cui origine è estremamente controversa, sono state osservate lungo i canalicoli biliari di minor calibro, noti come “canali di Hering”, e sembrerebbero originare da elementi simil-blastoidi localizzati in prossimità dei canalicoli. Il dato interessante è che le cellule ovali esprimono in superficie la molecola CD34 ed altri antigeni i quali sono normalmente espressi sulle cellule staminali di derivazione emopoietica e pertanto è stato ipotizzato che queste cellule siano in realtà richiamate dal midollo emopoietico in presenza di un danno epatocitario quando la proliferazione degli epatociti residenti è inibita (10).
Numerosi studi condotti sulla ripopolazione epatica e il trapianto cellulare indicano invece che le cellule staminali di derivazione midollare possono dare origine ad epatociti normalmente funzionanti (11,12,13). Quello che rimane ancora da chiarire è se questa trasformazione è un evento possibile ma sostanzialmente raro, oppure se sia in realtà uno dei meccanismi principali attraverso i quali il fegato ripopola il proprio pool di epatociti in presenza di determinati tipi di danno.
Alcuni studi recenti, inoltre, sostengono che oltre al processo di “transdiferenziazione” anche la “fusione cellulare” potrebbe essere uno dei meccanismi attraverso i quali elementi staminali midollari possono dare origine ad epatociti funzionanti (14,15).
- Citochine e Fattori di Crescita Implicati nella Rigenerazione Epatica.
Le citochine sono proteine di piccole dimensioni che legandosi a recettori cellulari producono segnali intracellulari determinanti l’attivazione dei fattori di trascrizione. Ciò che le distingue dai fattori di crescita è la capacità di attivare meccanismi intracellulari di traduzione del segnale che non necessariamente sono legati alla proliferazione cellulare.
Sia NF-Kb che STAT3 sono fattori di trascrizione attivati da citochine, ed il fatto che la concentrazione intracellulare di questi fattori aumenta rapidamente dopo epatectomia sostiene l’ipotesi che siano le citochine le molecole che normalmente regolano la risposta rigenerativa del fegato (16).
Gli studi condotti sui topi knock-out sottoposti ad epatectomia parziale hanno dimostrato che la rigenerazione epatica richiede la presenza dell’interleuchina-6 (IL-6). Tuttavia, sembra che l’IL-6 da sola non sia sufficiente per l’induzione ed il mantenimento dell’intero processo, visto che il ripristino della massa epatica si verifica comunque, benché in maniera ritardata, in assenza del gene specifico (17).
In seguito al legame con il proprio recettore (IL-6R), il quale è associato a due sub-unità della proteina gp130, l’IL-6 stimola l’attività tirosin-chinasica della proteina Janus-Chinasi-tipo 1 (JAK1). JAK1 fosforila la proteina associata gp130 e il fattore di trascrizione STAT3 a livello di un residuo tirosinico determinandone la dimerizzazione. Successivamente la forma dimerizzata di STAT3 viene traslocata nel nucleo dopo attiva una serie di geni bersaglio. Inoltre, la stimolazione della gp130 porta anche all’attivazione della cascata delle MAP-chinasi (MAPK) la quale rappresenta una delle cascate enzimatiche intracellulari più importanti della proliferazione cellulare (Figura 1) (18).
In seguito ad epatectomia parziale, nei topi knock-out per il gene dell’IL-6 la rigenerazione epatica è deficitaria e caratterizzata de necrosi epatocitaria ed insufficienza epatica, mentre sul piano cellulare si osserva una ridotta sintesi di DNA con un certo numero di anomalie della fase G1 comprese la mancata attivazione di STAT3 ed anomalie nell’espressione di alcuni geni (19). Utilizzando sempre modelli di topi knock-out, è stato inoltre dimostrato che anche il fattore di necrosi tumorale (TNFα) è altresì importante per una normale risposta proliferativa dopo epatectomia. Questo effetto sembra in larga parte mediato dalla capacità del TNFα di stimolare la produzione di IL-6, visto che il trattamento con la citochina è in grado di correggere il deficit nella sintesi di DNA che si verifica nei topi knock-out per il recettore del TNFα (20).
Oltre ai meccanismi di traduzione del segnale mediati dalle citochine, numerosi fattori di crescita promuovono la replicazione cellulare durante la rigenerazione epatica. In base a quanto osservato dagli studi in vivo ed in vitro su epatociti isolati, sembra che il fattore di crescita tumorale (Tumor Grow Factor alfa - TGFα) ed il fattore di crescita degli epatociti (Hepatocyte Grow Factor – HGF) siano i principali fattori di crescita coinvolti nel processo di rigenerazione del fegato (21-23). In vivo, l’HGF è prodotto dalla componente non parenchimale del tessuto epatico, in particolar modo dalle cellule stellate e sembra pertanto agire sugli epatociti tramite un meccanismo di azione paracrina. Il precursore dell’HGF (pro-HGF) viene attivato rapidamente da enzimi ad azione proteasica, quali l’attivatore tissutale del plasminogeno, in seguito ad epatectomia parziale e danno epatico. Il blocco dell’attività proteasica rallenta la produzione di HGF e determina un ritardo nel processo di rigenerazione mentre gli inibitori dei bloccanti le proteasi accelerano il rilascio di HGF e promuovono la rigenerazione epatica (24). A sostegno dell’attività pro-rigenerativa dell’HGF ci sono inoltre gli esperimenti di danno epatico indotto da tetracloruro di carbonio (CCl4) in cui la somministrazione in vivo di anticorpi anti-HGF blocca la rigenerazione epatica accorciando notevolmente la sopravvivenza degli animali, mentre, al contrario, la somministrazione di alte dosi di HGF riduce l’entità del danno epatico (25). Studi in vitro condotti su epatociti isolati hanno documentato che l’azione mitogena dell’HGF è mediata, almeno in parte, dall’over-espressione del TGFα ed, in effetti, è stato dimostrato che anticorpi anti-TGFα riducono la sintesi del DNA nel fegato rigenerante (23). Ciò nonostante, in considerazione del fatto che un ampio numero di ligandi e recettori appartengono alla famiglia del TGF e dell’EGF (endothelial grow factor), l’impossibilità di bloccare contemporaneamente tutti i ligandi e i recettori ha reso estremamente difficile provare che potenti mitogeni come il TGFα e l’EGF sono effettivamente cruciali per la rigenerazione epatica (1). Ad esempio, il fattore di crescita dell’endotelio vascolare (vascular endothelium grow factor- VEGF) interagisce specificamente con le cellule endoteliali dei sinusoidi epatici e determina un incremento della produzione dell’HGF da parte delle cellule non parenchimali. In questo modo la rigenerazione epatica indotta dal VEGF sembra dipendere dalla presenza delle cellule endoteliali ma il meccanismo in realtà è ancora incompreso e viene bloccato, almeno in parte, dal trattamento con anticorpi anti-HGF (26). I fattori di crescita e le citochine come l’HGF e l’IL-6 promuovono il mantenimento della rigenerazione epatica e l’epatoprotezione in diversi modelli di danno epatico, quali il modello di danno mediato dal FAS, il danno tossico indotto dalle epatotossine come il CCL4 e dall’ischemia (6). Questi fattori di crescita rappresentano una importante protezione contro il danno epatico cronico che determina la formazione di fibrosi. La reazione esistente tra l’attività pro-mitogenica ed epatoprotettiva di questi fattori non è ancora completamente compresa ma almeno in parte sembra essere legata alla produzione di proteine anti-apoptotiche che regolano la cascata enzimatica delle caspasi intracellulari (1).
Figura 1: Modello di trasduzione del segnale della cascata intracellulare IL-6/Stat3
3. Cellule Ovali e Cellule Staminali Emopoietiche: quale relazione?
Sia gli epatociti che i dotti biliari intraepatici originano da epatoblasti di derivazione endodermica che esprimono i geni per l’albumina e l’alfa-fetoproteina (27). Al giorno 14, nei topi, ed al giorno 15, nei ratti, gli epatoblasti si trovano disposti vicino agli spazi vascolari, quelli che diventeranno gli spazi portali del fegato adulto, ed esprimono sia markers di origine epatocitaria (l’albumina e l’alfa-fetoproteina, appunto) sia marcatori biliari come le citocheratine 7 e 19 (28). Questi epatoblasti danno origine ai dotti biliari intraepatici primitivi i quali sono strutture che mettono in comunicazione gli epatociti parenchimali con i più ampi segmenti del sistema biliare. I dotti biliari primitivi intraepatici corrispondono ai canali di Hering ed ai duttili terminali del fegato adulto che diversi studi hanno ipotizzato rappresentare la “nicchia” intraepatica delle cellule staminali, le quali in teoria si identificherebbero con le cellule ovali (10). Analisi immunoistochimiche per la determinazione delle molecole di superficie fanno supporre che la popolazione proliferante di cellule ovali in realtà rappresenti un compartimento cellulare estremamente eterogeneo contenente cellule con capacità differenziativa diversa. Alcune di queste cellule possono funzionare come progenitori di epatociti, mentre altre sono indistinguibili dai normali colangiociti, cellule che non esprimono l’alfa-fetoproteina o altri marcatori epatocitari. Le cellule ovali e i colangiociti hanno in comune epitopi che reagiscono con l’anticorpo OV6 (anticorpo diretto contro la citocheratina 19), OC2 (anticorpo anti-mieloperossidasi) ed alcuni altri membri della serie OC, la gamma-glutamiltransferasi e gli antigeni A6 e G7 (29,30)
Oltre ad esprimere markers epatocitari e della serie biliare, le cellule ovali esprimono marcatori delle cellule staminali emopoietiche. Tra questi ricordiamo: Thy-1, CD34, CD45, Sca-1, c-Kit ed ft-3, i quali possono tutti essere ritrovati nel fegato fetale. Cellule simili alle cellule staminali positive per il CD34 ed il c-kit sono state isolate sia dal fegato normale che dal fegato cirrotico (10).
Il fegato adulto normale nel topo contiene cellule emopoietiche che sono simili dal punto di vista fenotipico a quelle che comunemente si ritrovano nel midollo osseo. Sulla base dei dati esistenti, l’espressione dei marcatori emopoietici nel fegato adulto normale e dopo danno epatico determinante la proliferazione delle cellule ovali potrebbe essere interpretata in due modi (31):
- - Un numero molto piccolo di cellule staminali emopoietiche presente nel fegato fetale (che ricordiamo è il principale organo emopoietico della vita fetale) potrebbe rimanere nel fegato adulto. Queste cellule potrebbero in realtà rappresentare una popolazione cellulare ben diversa dalle cellule ovali ma che è indotta a proliferare dalle stesse condizioni fisiopatologiche. In questo caso, le cellule staminali emopoietiche farebbero sì parte del compartimento delle cellule ovali ma rappresenterebbero a tutti gli effetti una popolazione cellulare ben distinta la quale non esprime i marcatori di linea epatocitaria mentre condivide con le cellule ovali l’espressione dei marcatori di staminalità e come quest’ultime è situata lungo i canali di Hering.
- - Oppure, le cellule emopoietiche presenti nel fegato adulto potrebbero essere cellule staminali pluripotenti residenti nel tessuto epatico, funzionanti in maniera simile alle cellule staminali embrionali capaci di dare origine a diversi tipi cellulari, compresi gli epatociti. Se questa ipotesi risultasse corretta, le cellule staminali emopoietiche situate all’interno del fegato si differenzierebbero progressivamente, prima in cellule ovali ed infine in epatociti per effetto degli stessi stimoli che determinano la risposta del compartimento delle cellule ovali. La relazione esistente tra le cellule ovali ed il midollo osseo emopoietico potrebbe essere compresa più facilmente se si potesse dimostrare che le cellule ovali possono originare dalle cellule emopoietiche, tuttavia gli studi sino ad ora pubblicati sono in contraddizione tra loro. Petersen e collaboratori (10), in uno studio in vivo condotto su di un modello murino di danno epatico indotto da acetoaminofluorene, sostengono che lo 0.15% delle cellule ovali presenti nel tessuto dopo il danno sono di origine midollare. D’altro canto, lo studio di Wang (32) sembra invece contraddire i precedenti risultati e documentare che le cellule ovali che vengono ritrovate nel fegato murino con danno da deficit di fumaril-acetoacetato-idrolasi (FAH) sono esclusivamente di origine intraepatica, tale dato è peraltro stato confermato successivamente in uno studio condotto in tre modelli murini diversi di danno epatico dove effettivamente le cellule ovali non sembrano derivare da cellule di origine midollare (33).
Quale tipo di meccanismo?: transdifferenziazione o fusione cellulare?
Il grande interesse generato dalla scienza delle cellule staminali negli anni più recenti deriva dalla scoperta di due nuove proprietà di queste cellule, ovvero, studi condotti sulle cellule staminali emopoietiche (heamatopoietic stem cells – HSCs) e sulle cellule staminali midollari mesenchimali (mesenchimal stem cells – MSCs) hanno dimostrato che queste cellule sono in grado di dare origine a numerosi e diversi tipi cellulari (concetto di transdifferenziazione) e che possono scegliere tra numerosi percorsi di differenziazione (concetto di plasticità differenziativa).
L’intuizione della plasticità delle cellule staminali adulte ha avuto origine ab-initio dalla ritrovamento di cellule di origine del donatore in diversi tessuti extra-ematologici di riceventi di trapianto di midollo osseo. A dimostrazione della capacità delle cellule staminali emopoietiche di migrare in organi differenti, una singola cellula staminale emopoietica è stata marcata geneticamente e mescolata ad un preparato di midollo osseo il quale è stato successivamente iniettato in un animale da esperimento che aveva ricevuto una dose letale di radiazioni. Diverse settimane dopo, i discendenti marcati della cellula staminale emopoietica originaria sono stati ritrovati in numerosi tessuti dell’animale, documentando quindi la plasticità dei precursori midollari (34).
Tuttavia questa eclatante scoperta va sicuramente accolta con molta cautela.
Uno studio successivo che ha impiegato, per la ricostituzione dell’emopoiesi dopo irradiazione letale, un singolo progenitore marcato, non è riuscito a dimostrare la presenza di una quantità sufficiente di discendenti del precursore originario nei tessuti non emopoietici (35).
Due ulteriori studi (36,37) hanno inoltre criticato la plasticità intrinseca delle cellule staminali tissutali basandosi sull’osservazione che le cellule staminali embrionali sono in grado di fondersi con cellule del tessuto nervoso co-coltivate dando origine ad ibridi cellulari tetraploidi che però conservano le caratteristiche di pluripotenza e la capacità di dare origine a tessuti diversi se successivamente iniettate nella blastocisti embrionale.
Questo concetto è stato ripreso anche da due recenti reports (14,38) che ipotizzano che la fusione cellulare sia in realtà il principale meccanismo attraverso il quale le cellule staminali emopoietiche possono dare origine ad epatociti. Queste scoperte se da un lato rappresentano una spiegazione alternativa alla presunta capacità transdifferenziativa delle cellule staminali emopoietiche, d’altro canto portano con se la più ampia ed interessante ipotesi secondo la quale la fusione cellulare potrebbe essere semplicemente un’altra sfaccettatura della enorme plasticità delle cellule staminali emopoietiche.
Anche le cellule mesenchimali situate nello stroma del midollo osseo (mesenchymal stem cells – MSCs) emopoietico dell’adulto sembrano rappresentare una ricca fonte, benché meno caratterizzata, di cellule staminali in grado di differenziare in una varietà di tessuti adulti. L’elevata capacità proliferativa delle cellule mesenchimali che si osserva in coltura rende questo tipo cellulare particolarmente attraente per gli studi clinici sulla terapia cellulare del danno d’organo. In uno studio condotto da Toma e collaboratori (39), cellule staminali mesenchimali purificate sono state in grado di colonizzare il miocardio di un topo immunodeficiente dando origine a miocardiociti. E’ molto probabile comunque che le cellule staminali mesenchimali siano in realtà una popolazione cellulare estremamente eterogenea e che solo una qualche sottopopolazione conservi in realtà le caratteristiche di plasticità. In particolare, le cellule identificate come cellule progenitrici adulte multipotenti (multipotent adult progenitor cells - MAPC) potrebbero rappresentare la sottopopolazione mesenchimale che mantiene anche nell’adulto la maggiore versatilità. Nello studio di Jiang e collaboratori (40) le MAPC, accuratamente caratterizzate per la presenza di uno specifico subset di marcatori di membrana, sono state isolate da colture di midollo osseo di ratto e si sono dimostrate in grado di dare origine in coltura a diversi tipi cellulari maturi ed, inoltre, quando iniettate nella blastocisti hanno dato origine ad elementi cellulari di tutti e tre i foglietti embrionali.
5. Il ruolo del danno nella transdifferenziazione e nell’homing
Uno dei concetti incontestati e che ricorre in quella che è stata una vera esplosione di lavori scientifici pubblicati negli ultimi anni è che il danno tissutale è un pre-requisito fondamentale per la partecipazione delle cellule staminali circolanti ai processi di rigenerazione dei tessuti extra-ematologici. Nonostante la riportata bassa frequenza alla quale le cellule staminali adulte ripopolano i tessuti danneggiati, limitando di conseguenza la possibilità di utilizzarle per la generazione di interi organi, anche un esiguo numero di cellule staminali in realtà potrebbe essere sufficiente ad indurre i processi rigenerativi endogeni. Topi e ratti con infarto miocardico indotto sperimentalmente mostrano un recupero a dir poco straordinario in seguito all’innesto di cellule staminali midollari direttamente nell’area infartuata ovvero, più recentemente, in seguito alla mobilizzazione delle cellule staminali nel sangue periferico tramite la somministrazione di fattore di crescita granulocitario (granulocyte colony stimulating factor – GCS-F) e di fattore di crescita delle cellule staminali (stem cell factor – SCF) (41). Anche se in questi studi il numero assoluto delle cellule staminali è effettivamente troppo piccolo per rimpiazzare l’intero tessuto necrotico, le cellule appaiono maggiormente concentrate nell’area infartuata rispetto ad altre parti del cuore suggerendo che la ripopolazione da parte delle cellule staminali di alcuni tessuti può effettivamente essere stimolata dal danno tissutale. Se si esaminano poi i lavori atti a verificare la presenza di cellule staminali di origine midollare a livello del tessuto epatico, si osserva che mentre il numero di cellule di origine midollare è assolutamente scarsa ed ininfluente in condizioni basali, il tasso di ripopolamento del fegato aumenta notevolmente nei modelli di danno tissutale quali il deficit di FAH ed il danno da CCL4. E’ ovvio pensare che alcuni tipi di danno tissutale più di altri (in particolare la necrosi epatocitaria massiva che tipicamente si osserva nel deficit murino di FAH e quella indotta dalle epatotossine come l’acetoaminofluorene ed il CCL4) determinino il rilascio in circolo di fattori solubili (chemochine, citochine, fattori di crescita, molecole ad azione proinfiammatoria) in grado di richiamare le cellule staminali a livello del sito di danno (homing). Quali siano esattamente queste molecole e quali stimoli più di altri siano responsabili del loro rilascio in circolo è per molti versi un mistero. In uno studio recente (42) è stato ipotizzato che il fattore di derivazione stromale (stromal derived factor- SDF1) sia il fattore solubile alla base dei processi di ricircolo di elementi staminali tra i tessuti periferici, il midollo osseo e viceversa. Tra gli altri fattori imputati nel processi di homing vi sono inoltre l’HGF e la forma solubile della metalloproteasi della matrice (matrix metalloprotease type 9 – MMP9) le cui concentrazioni in circolo aumentano in diversi modelli sperimentali di danno epatico in cui è stato dimostrato un ripopolamento da parte di cellule staminali (43).
6. Studio Clinico: Tolleranza ed Efficacia del Fattore di Crescita Granulocitario utilizzato per Mobilizzare Cellule Staminali Emopoietiche CD34/CD133+ nel Sangue Periferico di Pazienti Affetti da Cirrosi Epatica
Il presente studio clinico è stato realizzato presso il Dipartimento di Medicina Interna, CardioAngiologia ed Epatologia, in collaborazione con l’Istituto di Ematologia ed Oncologia Medica “L. & A. Seràgnoli” dell’Università di Bologna. Il Progetto è stato approvato dal Comitato Etico dell’Azienda Ospedaliera S.Orsola-Malpighi di Bologna.
RAZIONALE DELLO STUDIO
Questo studio, eminentemente clinico, è stato realizzato allo scopo di verificare la possibilità di mobilizzare cellule staminali emopoietiche, identificate dagli antigeni di membrana CD34 e CD133, nel sangue periferico di pazienti affetti da cirrosi epatica in seguito alla somministrazione sottocutanea di fattore di crescita granulocitario (G-CSF _ Lenograstim®).
Il razionale dello studio giunge da quanto emerso nella letteratura scientifica degli ultimi 2-3 anni in cui è stato dimostrato, in modelli murini in vivo, che la mobilizzazione di cellule staminali emopoietiche ottenuta tramite la somministrazione di fattori di crescita è in grado di accelerare i processi di rigenerazione epatica in diversi modelli di danno, in particolar modo quello indotto da epatotossine, quali l’acetoaminofluorene, il tetracloruro di carbonio e la retrorsina.
Sino ad oggi, non sono stati realizzati studi atti a verificare l’efficacia della mobilizzazione periferica di cellule staminali emopoietiche sulla rigenerazione epatica di pazienti affetti da cirrosi epatica. Il fattore di crescita granulocitario (G-CSF), farmaco normalmente impiegato in ematologia per stimolare la mobilizzazione di cellule staminali emopoietiche nel sangue periferico allo scopo di raccoglierle per la donazione al posto del trapianto di midollo osseo, è stato utilizzato nei pazienti epatopatici come terapia di supporto nelle neutropenie secondarie a terapia antivirale, ovvero, in un unico studio condotto su pazienti cirrotici in fase avanzata, per ridurre il rischio di infezioni.
Obiettivi delle Studio:
Primari:
1. Valutazione della sicurezza della somministrazione di Lenograstim in pazienti affetti da insufficienza epatica;
2. Definizione della dose ottimale di Lenograstim in grado di ottenere la mobilizzazione di cellule staminali emopoietiche CD34+, CD133+ nel sangue periferico dei pazienti affetti da cirrosi epatica.
Secondari
3. Valutazione degli effetti del trattamento farmacologico e della mobilizzazione delle cellule staminali sui principali parametri di funzione epatica;
4. Definizione del protocollo di trattamento ideale per raccogliere le cellule staminali mobilizzate dal sangue periferico.
DISEGNO DELLO STUDIO
- Tipo di studio:
- Criteri di Inclusione:
- Criteri di esclusione:
- Insufficienza cardiaca (definita come frazione di eiezione < 50%)
- Insufficienza renale (definita come valori di creatinina sierica > 2 mg/dl)
- Infezione da virus dell’immunodeficienza acquisita
- Malattie ematologiche clinicamente documentate o terapia in atto con farmaci in grado di deprimere la funzione midollare (allopurinolo, immunosoppressori, altri…)
Schema di Trattamento:
- Farmaco utilizzato: Lenograstim (forma ricombinate del fattore di crescita granulocitario umano - rHu G-CSF) somministrato per iniezione sottocutanea per la durata complessiva di 7 giorni
- Dosi : Sono stati progressivamente arruolati 3 pazienti per ogni dose di Lenograstim, secondo la regola di incremento di Fibonacci modificata. In particolare:
STEP DOSE (µG/Kg/die) INCREMENTO (%)
1 2 -
2 4 100
3 6.6 67
4 10 50
5 15 50
6 18 25
7 24 33
Questi gruppi di dose sono stati disegnati per consentire la valutazione di:
a) Sicurezza della somministrazione di G-CSF: L’incremento della dose dipende dal numero di pazienti che sviluppa, per ogni dose, una tossicità di grado III-IV. Se non compare tossicità per una data dose si procede alla dose successiva. Se 1/3 pazienti mostrano tossicità vengono arruolati altri 3 pazienti alla medesima dose. Nel caso compaia un altro episodio di tossicità lo studio viene interrotto così come nel caso di 2/3 pazienti mostrino tossicità di grado III-IV. In questi casi, la dose precedente verrà considerata la dose massima tollerata (DMT) dopo aver arruolato altri 3 pazienti ed aver verificato che solo 0-1/6 pazienti hanno mostrato tossicità limitante.
b) Definizione della dose mobilizzante di G-CSF: E’ definita come la dose minima di G-CSF (al di sotto della DMT) in grado di indurre la mobilizzazione di cellule CD34+/CD133+ nel sangue periferico di 2/3 pazienti (>55% dei pazienti trattati per quel gruppo di dose) . Si considera come mobilizzazione avvenuta un numero di cellule CD34+ /CD133+ circolanti ≥ 10/µL al picco massimo.
- Determinazioni durante il trattamento e follow-up:
RISULTATI
- PAZIENTI ARRUOLATI (Tabella n. 1)
Sono stati arruolati complessivamente, tra il 2002 e il 2004, 15 pazienti affetti da cirrosi epatica.
L’età media dei pazienti è stata di 52 anni (± 8 DS), al momento dell’arruolamento lo funzione epatica residua veniva identificata da uno score mediano di 7 (range 5-9) secondo la stadiazione di Child-Turcotte-Pugh e da uno score mediano di 11.5 (range 7-17) secondo la stadiazione MELD. L’eziologia della cirrosi epatica era: infezione da virus C dell’epatite in 11 pazienti/15 (73%), coinfezione da virus B e delta dell’epatite in 1 paziente/15 (6%); coinfezione da virus B-delta e HCV in 1 paziente/15 (6%); abuso alcolico in 2 pazienti/15 (13%).
Il Follow-up mediano è attualmente di 220 giorni (range 117-530 giorni).
VALUTAZIONE DELLA SICUREZZA
Il trattamento con Lenograstim si è rilevato sicuro anche alle dosi più elevate. In particolare non si sono osservati eventi avversi gravi. Per quanto riguarda gli effetti collaterali, il dolore-ostemuscolare è stato il disturbo più spesso riportato dai pazienti (8/15, 53%), mentre la febbre si è osservata solo in 3 pazienti su 15 (27%). Dal punto di vista laboratoristico, non si sono osservati segni di epatotossicità, in particolare non si sono avuti incrementi delle transaminasi. L’unica alterazione che si è osservata è stata, a partire dalla dose di 6.6 µg/Kg/dì, l’elevazione dei valori di fosfatasi alcalina. In realtà, come verificato dalla determinazione degli isoenzimi, questa alterazione è attribuibile all’aumento dell’isoenzima osseo ed è secondaria alla reazione periostale che si verifica nelle lacune del midollo osseo stimolate dal trattamento con il fattore di crescita. E’ questo un effetto laboratoristico noto del trattamento con fattore di crescita granulocitario anche nei soggetti non cirrotici. I valori di fosfatasi alcalina sono spontaneamente ritornati ai livelli di partenza dopo la sospensione del trattamento. Non si sono avuti per contro altre alterazioni degli indici di colestasi quali bilirubina e gamma-glutamiltransferasi.
DEFINIZIONE DELLA DOSE DI LENOGRASTIM IN GRADO DI INDURRE LA MOBILIZZAZIONE (DOSE FINDING)
Sono state sperimentate complessivamente 5 dosi di Lenograstim: 2, 4, 6.6, 10 e 15 µg/Kg/dì. In effetti, la dose di 15 µg/Kg/dì ha determinato una mobilizzazione di cellule staminali CD34/CD133+ > 10 cellule/µL nel sangue periferico in 2/3 pazienti, e può quindi essere considerata come la dose mobilizzante per i pazienti affetti da cirrosi epatica. Complessivamente, su di un totale di 15 pazienti, la mobilizzazione si è osservata in 4 pazienti (Tabella 2).
In questi 4 pazienti, il primo picco di cellule staminali emopoietiche nel sangue periferico si è registrato al 5° giorno di terapia, con un valore medio di cellule CD34+ e CD133+ di 41.5 (± 13.5 DS) cellule/µL e 26.5 (± 3.2 DS) cellule/µL, rispettivamente (Grafico 1 e 2).
VALUTAZIONE DEGLI EFFETTI DEL TRATTAMENTO FARMACOLOGICO E DELLA MOBILIZZAZIONE DELLE CELLULE STAMINALI SUI PRINCIPALI PARAMETRI DI FUNZIONE EPATICA
Il trattamento con fattore di crescita granulocitario non ha determinato modificazioni statisticamente significative dei principali parametri di funzione epatica. In particolare non si sono osservate modificazioni rispetto ai valori basali delle transaminasi e dei valori di bilirubina, INR e albumina (Test Wilcoxon per dati appaiati, tra i tempi 0 - 7, 0 - 28, 0 – follow up; p > 0.05 ). Complessivamente, quindi, lo score di Child-Turcotte-Pugh utilizzato per la stadiazione dell’insufficienza funzionale epatica non ha subito modificazioni statisticamente significative. L’unica modificazione che si è osservata è una riduzione statisticamente significativa (Test Wilcoxon per dati appaiati) dei valori di alfa-fetoproteina tra i tempi 0-7 (p 0.02) , 0-28 (p 0.003) e 0-follow-up (p 0.003) (Grafico 3).
Se si analizzano, poi, i parametri di funzione epatica esclusivamente nei 4 pazienti che hanno ottenuto una mobilizzazione significativa di cellule staminali emopoietiche nel sangue periferico, anche in questo caso non si osservano modificazioni statisticamente significative dei principali parametri di funzione epatica (Test Wilcoxon per dati appaiati, tra i tempi 0 - 7, 0 - 28, 0 – follow up; p > 0.05 ) mentre si osserva esclusivamente una riduzione dei valori di transaminasi (ALT) tra i tempi 0-28 (p 0.04) e 0- follow-up (p. 0.04) (Grafico 4).
RACCOLTA DELLE CELLULE STAMINALI EMOPOIETICHE
Dopo aver stabilito che la dose di 15 µg/Kg/dì è la dose di G-CSF in grado di determinare una sufficiente mobilizzazione di cellule staminali emopoietiche nel paziente cirrotico, ulteriori 2 pazienti sono stati sottoposti a trattamento con G-CSF. Questi pazienti sono stati trattati per 5 giorni, al 5° giorno si sono contate le cellule CD34+ e CD133+ nel sangue periferico, e una volta verificato che il numero di elementi staminali circolanti fosse effettivamente superiore a 10 cellule/µl, si è proceduto alla raccolta. La raccolta è stata eseguita attraverso leucoaferesi tramite accesso venoso periferico e non ha determinato eventi avversi degni di nota in entrambi i pazienti.
Dalle cellule mononucleate del sangue periferico si sono selezionate le cellule CD34+ e CD133+ tramite selezione immunomagnetica (CliniMacs ®). La quantità di cellule raccolte e purificate è stata dell’ordine di 1.2x106/Kg per le cellule CD34+ e di 0.8x106/Kg per le cellule CD133+. Queste cellule sono state successivamente sottoposte a processo di criopreservazione e sono attualmente conservate presso il Servizio di Ematologia.
CONCLUSIONI
Questo studio ha dimostrato che è possibile trattare con fattore di crescita granulocitario (G-CSF_Lenograstim®) i pazienti affetti da cirrosi epatica senza determinare eventi avversi gravi e che lo schema terapeutico necessario per ottenere una sufficiente mobilizzazione di elementi staminali CD34+ e CD133+ nel sangue periferico prevede la somministrazione di 15 µg/Kg/dì di G-CSF per almeno 5 giorni. Al 5° giorno è possibile raccogliere le cellule mobilizzate tramite leucoaferesi, purificarle attraverso selezione immunomagnetica e criopreservarle.
Considerando, quindi, come end-point primario dello studio la sicurezza del trattamento proposto e l’efficacia, intesa come possibilità di ottenere la mobilizzazione di cellule staminali emopoietiche, il nostro schema terapeutico si è rilevato sicuro ed efficace. Rispetto al donatore sano, che nelle cliniche ematologiche normalmente viene trattato alla dose di 10 µg/Kg/dì di G-CSF per la donazione delle cellule staminali eterologhe ai pazienti ematologici, la dose necessaria per ottenere nel paziente cirrotico una mobilizzazione di cellule staminali paragonabile si è rilevata essere maggiore (15 µg/Kg/dì). La maggior dose di fattore di crescita necessaria per ottenere una sufficiente mobilizzazione di cellule staminali nel paziente cirrotico è verosimilmente legata alla presenza dell’ipersplenismo secondario all’ipertensione portale ed alla mieloinibizione determinata dall’infezione virale cronica, in particolare l’infezione da virus C dell’epatite dalla quale risulta affetta la maggior parte (73%) dei pazienti trattati in questo studio.
Per quanto riguarda l’end-point secondario, ovvero la possibilità di ottenere un qualche miglioramento della funzione epatica residua del paziente cirrotico tramite la mobilizzazione di cellule staminali emopoietiche o il trattamento con G-CSF per se, in realtà, il nostro studio non ha dimostrato modificazioni significative della funzione epatica residua nei pazienti trattati, ed in particolare anche nei 4 pazienti in cui si è ottenuta la mobilizzazione. Ovviamente, l’esiguità del numero dei pazienti, ma soprattutto il piccolo numero di pazienti in cui si è ottenuta la mobilizzazione, limita in maniera importante il valore statistico dei risultati ottenuti.
Del resto questo studio è stato concepito come uno studio di tollerabilità ed efficacia, mentre non deve essere inteso come la volontà di creare un protocollo terapeutico di utilizzo del G-CSF per i pazienti con insufficienza epatica.
Ciò nonostante, analizzando i dati ottenuti, abbiamo osservato come in tutti i pazienti trattati si osservi una progressiva riduzione dei valori di alfa-fetoproteina. L’alfa-fetoproteina è uno dei principali indicatori di rigenerazione epatica, e valori elevati, in particolar modo nei pazienti affetti da epatopatia virale, si associano spesso alla presenza di epatocarcinoma. La riduzione dei valori di alfa-fetoproteina che si osserva nella nostra popolazione di pazienti è statisticamente significativa in tutti i pazienti trattati, mentre la significatività viene persa se si osservano esclusivamente i 4 pazienti in cui si è ottenuta la mobilizzazione. Questo dato fa pensare che il G-CSF in quanto tale, e non la mobilizzazione delle cellule staminali, sia responsabile della riduzione dei valori di alfa-fetoproteina. Il reale motivo di questa modificazione ci è sconosciuto e del resto mancano completamente in letteratura dati simili, la nostra ipotesi è che il G-CSF possa in un qualche modo interferire con i processi di proliferazione epatocitaria del fegato cirrotico e ridurre di conseguenza i valori di alfa-fetoproteina. Non dobbiamo inoltre dimenticare che la maggior parte dei pazienti trattati in questo studio sono pazienti affetti da epatite virale, l’aumento dei leucociti totali secondari al trattamento e, più in generale, la stimolazione del sistema immunitario che ne consegue potrebbero migliorare il controllo dell’infezione in questa categoria di pazienti ed il miglior controllo dell’infezione potrebbe essere alla base della riduzione dell’attività citonecrotica e proliferativa. Tuttavia, benché l’andamento delle transaminasi nei pazienti trattati mostri un decremento, tale decremento non è statisticamente significativo. Non sono inoltre disponibili i dati sulle viremie HCV che possano testimoniare in effetti un andamento positivo dell’infezione virale in corso di trattamento con G-CSF.
CONSIDERAZIONI FINALI
Questo è il primo studio sino ad ora realizzato per valutare la possibilità di trattare pazienti affetti da insufficienza epatica con fattore di crescita granulocitario allo scopo di indurre la mobilizzazione di cellule staminali emopoietiche nel sangue periferico. Per motivi etici, in considerazione del fatto che il trattamento con G-CSF non è registrato per i pazienti affetti da epatopatia cronica, è stato necessario disegnare uno studio che fosse innanzitutto uno studio di sicurezza. Per questo motivo si è partiti trattando i pazienti con dosi molto basse del farmaco che sono state progressivamente incrementare nei gruppi di dose successivi, tenendo sotto stretta osservazione i pazienti in modo da poter sospendere il trattamento nel caso comparissero eventi avversi gravi. Se da un lato, quindi, è stata giustamente tutelata la salute del paziente, dall’altro lato con le dosi impiegate si sono potuti osservare gli effetti della mobilizzazione esclusivamente su 4 pazienti, numero decisamente troppo piccolo per poter trarre alcun tipo di conclusione statistica. Il dato di fatto comunque è che né il trattamento farmacologico in quanto tale, né la mobilizzazione delle cellule staminali hanno determinato una modificazione/miglioramento della funzione epatica dei pazienti cirrotici, spegnendo quindi gli entusiasmi nati dalla revisione della letteratura scientifica degli ultimi anni, in cui sono numerosissime le segnalazioni a favore del ruolo rigenerativo del G-CSF e delle cellule staminali emopoietiche in diversi tipi di danno epatico.
Del resto la maggior parte degli studi pubblicati in letteratura sino ad ora sono studi condotti nel topo o nel ratto, modelli animali nei quali non si è ancora riusciti a produrre un danno epatico cronico sufficientemente simile a quello della cirrosi epatica umana. In effetti, nei modelli murini di danno epatico indotto da epatotossine, quale il tetracloruro di carbonio, la fibrosi e l’insufficienza epatica, anche utilizzando dosi molto basse del tossico, si sviluppano in 4-8 settimane ed il livello di destrutturazione dell’organo non è paragonabile a quello che si osserva nella cirrosi epatica umana, che è il risultato finale di fenomeni di necrosi, rigenerazione e trasformazione cicatriziale che persistono spesso per oltre vent’anni. I modelli murini assomigliano molto di più, in effetti, a modelli di danno epatico sub-acuto nei quali i diversi studi sino ad ora eseguiti sembrano in effetti documentare che la rigenerazione epatica possa avvenire anche per effetto delle cellule staminali emopoietiche, mentre non ci sono dati disponibili e non è assolutamente chiaro se le cellule staminali emopoietiche possano avere un ruolo nei processi di rigenerazione epatica che si osservano nel danno cronico.
Va inoltre sottolineato che lo schema di trattamento utilizzato per indurre la mobilizzazione delle cellule staminali emopoietiche nella nostra popolazione di pazienti è stato in realtà importato dalle esperienze in campo ematologico dove normalmente il G-CSF viene utilizzato per stimolare i donatori sani e raccogliere le cellule staminali per la donazione ai malati ematologici al posto del trapianto di midollo osseo. Non sappiamo quindi se il cut-off di 10 cellule CD34+/µl, che è quello utilizzato per iniziare la raccolta nei donatori, sia a tutti gli effetti un valore sufficiente di cellule staminali in grado di promuovere i processi di rigenerazione tissutale, soprattutto in pazienti con ipersplenismo in cui ci si immagina che la maggior parte delle cellule vengano sequestrate a livello splenico. Non è un caso, infatti, che in alcuni modelli di danno d’organo trattati con G-CSF, l’animale da esperimento venga preventivamente splenectomizzato (41).
Oltre all’entità della mobilizzazione, anche le dosi di G-CSF da utilizzare a “scopo rigenerativo” potrebbero essere decisamente più alte di quelle correntemente utilizzate in ematologia per la donazione, in effetti nei modelli murini (44) la dose utilizzata a scopo rigenerativo è almeno 10 volte superiore (200 µg/Kg) a quella utilizzata nel nostro studio.
Concludendo, quindi, il nostro lavoro può essere considerato come uno studio preliminare che dimostra la possibilità di trattare con fattore di crescita granulocitario i pazienti affetti da cirrosi epatica e che è possibile anche in questi pazienti ottenere la mobilizzazione di cellule staminali emopoietiche nel sangue periferico.
La possibilità di utilizzare il G-CSF e la mobilizzazione delle cellule staminali emopoietiche a scopo rigenerativo nel paziente affetto da cirrosi epatica, richiede ulteriori studi, in cui verosimilmente venga arruolato un maggior numero di pazienti che vengano trattati con dosi maggiori di farmaco al fine di ottenere mobilizzazioni di maggiore entità. Sarà inoltre indispensabile progettare protocolli in cui venga valutato a livello istologico, ad esempio tramite la determinazione degli indici di proliferazione tissutale come il Ki-67 (MIB1), se il trattamento con il G-CSF e la mobilizzazione delle cellule staminali emopoietiche sia effettivamente in grado di modificare la rigenerazione epatica e/o di stimolarla.