Chi ha avuto un intervento di rivascolarizzazione coronarica, che sia chirurgica o mediante angioplastica coronarica, chiede a noi cardiologi come si deve comportare a tavola da ora in poi. Questa domanda equivale ad ammettere di avere trascurato, in passato, le norme di buon comportamento alimentare e, a volte, si intuisce la presenza di un sottile senso di colpa per averlo fatto, attribuendo anche a questo il verificarsi dell’evento coronarico.
C’è del vero in questo: il Progetto Interheart ha mostrato che alle errate abitudini di vita è attribuibile il 90% degli attacchi cardiaci, anche se, in concreto, sono il consumo di tabacco e l’ipercolesterolemia, a rappresentare, da soli, i due terzi del rischio coronarico globale.
In qualità di cardiologo, mi è capitato spesso di osservare che dei pazienti, dopo aver trascurato le più elementari norme di comportamento orientato alla salute per tutta la vita, insistessero per avere una dieta, scritta e particolareggiata, alla quale adeguarsi dopo l’evento coronarico, ed io gliela ho sempre prescritta.
L’aderenza a quella prescrizione nella maggior parte dei casi durava solo qualche mese: era chiaro che quelle persone attribuivano a quel foglio di carta una specie di magico potere salvifico, non volendo ammettere con se stessi che il rapporto col cibo è un fatto mentale e che non di “dieta” si tratta, ma di un radicale cambiamento di abitudini alimentari, che spesso fa parte di un cambiamento altrettanto radicale di molte delle proprie abitudini più radicate, che vanno riconsiderate in senso “salutogeno”. Vista la complessità del problema, ci sarebbero abbastanza ragioni per farsi aiutare da uno psicoterapeuta, ma, davanti a questa possibilità, molte persone storcono il naso e si mettono in difensiva, perché temono che, dopo avere avuto un così importante problema di salute, il
consultare uno psicoterapeuta li etichetti come 'pazzi', facendoli sentire ancora più malati.
Tuttavia, mi era, in passato, capitato di notare che, dai racconti che i pazienti facevano del loro dietologo “bravo”, che era riuscito a farli mangiare meglio e a pesare di meno, emergesse in quest’ultimo un tratto professionale molto più simile a quello di uno psicoterapeuta che a quello di un “medico prescrittore”. Quando sono diventato anche psicoterapeuta, il mio approccio ai pazienti cardiopatici è cambiato: accanto alle prescrizioni diagnostiche e terapeutiche “tipiche”, molto spazio viene dato all’aspetto riabilitativo, che include una comprensione psico-sociale della persona ed un atteggiamento terapeutico che l’aiuti nel percorso verso una riconsiderazione più “salutogena” della propria vita.
Quelli che mangiano male, specialmente se obesi e/o infartuati, portano a volte dentro di sé, come dicevo prima, un misto di sensi di colpa – per aver contribuito col loro comportamento a causare il problema – e una sensazione di impotenza davanti alla difficoltà che essi provano a seguire un programma alimentare “salutogeno”. Quando un paziente chiede aiuto psicoterapeutico perché è confuso dal percepire di non farcela da solo a cambiare il suo rapporto col cibo, una delle prime cose che li aiuto a comprendere è che il cibo ha dei significati simbolici che sono per la maggior parte radicati nella parte più inconsapevole della nostra mente. Una volta mi disse una paziente "Eh, dottore: per me il cibo non è quello che è per gli altri; non è semplicemente quella cosa che si mette a tavola".
E allora: il cibo come sostituto per il non sentirsi abbastanza amati, o per il sentirsi soli e privi di relazioni interpersonali significative, o come sostituto di un adeguato nutrimento emotivo da parte della famiglia, o, ancora, come modo a portata di mano per gratificarsi, in presenza di stress o di scontento nel vedere i propri obiettivi esistenziali lontani o, peggio ancora, irraggiungibili. La lista potrebbe estendersi, ma questi accenni servono solo per capire perché, in alcuni individui in cui il rapporto col cibo viene percepito come problematico, il semplice atto medico di prescrivere una dieta non è sufficiente, perché questa dieta non verrà seguita.
Tutte queste considerazioni ci portano a concludere che – al contrario degli animali della savana – in noi umani post-moderni la fame come stimolo biologico c’entra poco con quando e quanto mangiamo! In noi, l’atto dell’assunzione di cibo non è semplicemente legato al soddisfacimento del senso di fame, ma è condizionato da fattori culturali e psicologici. Numerosi studi sull’argomento dimostrano che la voglia di mangiare viene spesso stimolata da emozioni negative, quali l’ansia, la rabbia, la frustrazione, la bassa considerazione di se stessi: si mangia nel tentativo di automedicarsi e alleviare l’intensità di queste emozioni negative. In questi casi l’azione del mangiare sarà “compulsiva” (e spesso solitaria), vale a dire che la persona l’avvertirà come obbligatoria giustificandola come “sensazione di fame”, ma, in effetti la fame non c’entra proprio per niente.
E allora, una delle direzioni che prende la terapia è quella di ri-insegnare alla persona che si rivolge a noi “quando avere fame”, individuando e sottoponendo a critica quegli “assunti di base” inconsci intorno al mangiare che la persona porta sedimentati in sé e che sono frutto anche del condizionamento culturale cui si è stati esposti nel corso della propria educazione. Parallelamente il paziente si allenerà sempre più ad accorgersi se sta mangiando per un “appetito” che segnala la necessità fisiologica di nutrirsi, o perché sollecitato da qualche situazione sociale o da qualche pressione emotiva all’interno di sé.
Gratificarsi col cibo per alleviare la frustrazione di non riuscire a mangiare meno è il circolo vizioso più diabolico in cui una persona possa cadere: è un’autogoal che porta solo a ulteriori sensi di colpa e ulteriori sentimenti depressivi; e questi sentimenti portano a cercare ulteriore gratificazione nel cibo, in una spirale autodistruttiva senza fine.
Sedersi a tavola dopo un intervento coronarico: è tutto un fatto di testa

Dr. Francesco Di Lello
Cardiologo Medico Chirurgo, specialista in Cardiologia ed in Cardiochirurgia Creato il: 02/10/2010L'informazione presente nel sito deve servire a migliorare, e non a sostituire, il rapporto medico-paziente. In caso di disturbi e/o malattie rivolgiti al tuo medico di base o ad uno specialista.
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